“Paninoteca”, Sesto Carnera, Sph e Kiquè Velasquez raccontano il disco

“Paninoteca“, uscito a metà aprile, è il primo disco che vede insieme Sesto Carnera, Sph e Kiquè Velasquez.
Il disco, nato in maniera del tutto spontanea e senza forzature, è un flusso mentale di pensieri, esperienze, storie personali e diverse radici culturali che unendosi danno vita a un progetto introspettivo e potente.
“Paninoteca”, tipicamente underground e indipendente, nasce a Bologna: una delle città per eccellenza dell’Hip Hop. In questa intervista abbiamo cercato di chiedere qualcosa in più sul disco e su come si sono conosciuti i tre artisti.
Partiamo dalla copertina di Paninoteca e dal titolo … come è nato questo concept?
Sesto Carnera: Il concept “Panicoteca” mi venne in mente durante una data a Manduria a giugno 2024 in cui suonammo io ed Sph; eravamo in piena lavorazione del disco ed avevamo bisogno del concetto che finisse di dare senso al corpo del disco e completarlo.
L’idea di descrivere le situazioni della piazza dal punto di vista di una paninoteca lo trovavo estremamente appropriato.
Cercai un qualcosa che rappresentasse il più possibile quello che stavamo raccontando. Inoltre, questo per me è stata l’ennesima conferma dell’importanza di vivere fortemente insieme la vita, oltre che la musica con chi si collabora. La cosa più bella del fare questo disco, per me, credo sia stato proprio l’enorme affinità fra noi tre, nata, dopo la stima reciproca iniziale.

Voi tre come vi siete conosciuti? E soprattutto, come avete deciso di collaborare insieme?
Kiquè: Io ed Sph siamo amici da svariati anni, abbiamo già collaborato e usciamo insieme da sempre; quando devo produrre qualcuno mi immedesimo nella sua persona, cercando di valorizzarne l’ espressione artistica, infatti tutto il disco è stato fatto in questa maniera.
Ho conosciuto Sesto durante una collaborazione con Prodest (nome del brano Pointillisme) e già da quella prima sessione gli dissi che avremmo avuto molto da condividere, invitandolo a rifarsi vedere per la sinergia creatasi da quel primo incontro.
Conoscendo bene Sph ho pensato subito che i 2 ragazzi sarebbero stati potentissimi se si fossero messi assieme a fare musica e così è stato infatti, tutte le tracce sono frutto di naturalezza e spontaneità di 3 pazzi che si son trovati.
Le modalità di lavoro di Paninoteca sono state diverse: 1 brano ad esempio é partito da una strofa di Sesto su cui ho costruito ed arrangiato il beat e per gli altri, mentre facevo i beat ho “sentito”, come se mi fosse comparsa nella mente, la loro strofa gia’ sopra;
Per “Panopticon” ho voluto riarrangiare completamente la seconda strofa per esaltare ancora di piu’ l’espressione di SPH.
Per “Il disco che usci’ dal bagno e scomparve” avevo fatto un beat remixando T-Pain, poi Sesto c’ha scritto sopra e un giorno, quand’eravamo a cena io e Sesto è arrivato SPH, gliela facciamo sentire ed e’ partito subito col ritornello che poi ho cantato io in talkbox!
Insomma, devo dire che c’é stata un’ottima coesione in Paninoteca e ne sono molto felice! Questo succede solo quando si sta con persone con cui condividi tanto.
Lavorare a un disco implica molte scelte. Come siete riusciti a lavorare in tre seguendo la stessa direzione ?
Kiquè: Diciamo che se avessimo avuto idee diverse non sarebbe uscito Paninoteca, non trovo il senso nel dover forzare le cose, se dobbiamo andare a cena fuori scelgo un posto che va bene a tutti, se a qualcuno non va possiamo fare una cosa che piaccia a tutti; penso che il compromesso sia l’inizio della fine e ci tengo molto all’unanimità.
Una delle cose che vi accomuna è Bologna. Quanto è importante per la vostra crescita personale e artistica una città come questa?
Kiquè: Bologna è stata importantissima! Sta roba dell’ hiphop mi ha permesso di conoscere delle persone fantastiche e Bolo è sempre stato un centro nevralgico di questa cultura; vorrei ringraziare infatti Riskio (Jimmy Spinelli) per aver creduto in me dall’inizio e avermi introdotto nella scena presentandomi tutti.
Sono arrivato nel 2008 per lavorare come assistente fonico in Fonoprint, studio di Lucio Dalla, un grande! Mi ricordo che esigeva la mia presenza prima di cominciare le sessioni “Chiamate il sardo se no non comincio!” mi raccontavano i fonici;
lui si era preso benissimo per me per la risposta alla sua domanda “ma tu non guardi lo schermo?” gli risposi: “La musica la sento con le orecchie, lo schermo lo guardo dopo solo se ho bisogno di una conferma” e da li’ mi disse “tu da oggi sei sempre con me!”.
In quello studio ho imparato un sacco, ho avuto la fortuna di lavorare con le macchine analogiche, coi mixeroni giganti, coi nastri e per artisti di calibro enorme quali Ennio Morricone, Luca Carboni (grandissimo uomo pure lui), Vasco, Zucchero, Laura Pausini, Ramazzotti e tutta la scena musicale Italiana in auge al momento.
Quest’esperienza é stata veramente formante: ho dovuto smontarmi e rimontarmi a livello personale per essere impeccabile e continuo a farlo imparando costantemente cose nuove.
Nonostante sia sardo ormai son a Bologna da 17 anni, quasi la meta’ della mia vita e posso definirla come una seconda casa.
Sesto e SPH: Quello che possiamo dire è che sicuramente è una città in pieno fermento. Lo stimolo che ci comporta stare a Bologna è alto. Possiamo sicuramente dare importanza al fatto che se questo disco è venuto fuori è perché ci siamo ritrovati tutti e tre in questa città stupenda.

Nel disco affrontate temi importanti. Quali sono i brani a cui siete più legati?
Sesto Carnera : Le tracce che sentiamo di maggiore rappresentanza sono due: “Guerra di Nasi” e “Panopticon”.
La prima, nonostante l’allegoria nel titolo, esce fuori dal clichè solito del solito racconto urbano; tutto questo, perché abbiamo affrontato la scrittura trattando la questione della dipendenza ed utilizzo di sostanze in una forma poetica ed emotiva. Siamo riusciti a scendere in modo introspettivo in alcuni degli aspetti delle nostre ombre. Sento di aver sanguinato in quel brano (afferma Sesto Carnera).
Panopticon invece rappresenta il corpo del disco a livello sonoro. Pensiamo possa essere il beat cardine che abbraccia il corpo del disco nelle produzioni. Inoltre rispetto al primo brano citato, tematicamente sta all’opposto, nel senso che è uno dei due brani che esce al di fuori dei temi ricorrenti dell’album dando un messaggio ricercato e profondo oltre che tendente alla riflessione.